Ultima modifica: 24 Giugno 2022

Giardino dei Giusti

Oggetto: La mattina di mercoledì 25 maggio 2022 abbiamo piantato un giovane ulivo in memoria di don Giovanni Barbareschi...

La mattina di mercoledì 25 maggio 2022 abbiamo piantato un giovane ulivo in memoria di don Giovanni Barbareschi.

È stata una cerimonia molto coinvolgente per le testimonianze di Sergio Della Pergola, membro del Comitato dei Giusti dello Yad Vashem,  mons. Pierfrancesco Fumagalli, presidente dell’Associazione Italia-Israele di Milano,  Roberto Cenati, presidente dell’Anpi provinciale di Milano, Franco Foa’, consigliere del KKL,  che hanno saputo intrecciare il momento riflessivo  e il ricordo personale.

Sergio Della Pergola, dopo essersi soffermato sul significato di “giusto”, rievoca la sua storia di bimbo di un anno, che con i suoi genitori venne salvato grazie a quei “giusti” fiorentini che facevano capo al card. Dalla Costa e sottrassero la sua famiglia all’arresto,  ma anche grazie al moto di umanità che fece sì che le guardie al confine  svizzero, la notte di Natale, non respingessero in Italia il padre, come prevedeva la legge. L’esempio, che si conclude con la scena delle guardie che intonano Stille Nacht dinanzi alla cullina in cui era stato posto il piccolo Sergio,  fa capire come la scelta fra bene e male, fra il sì che può salvare una vita e il no che l’avvierebbe all’arresto e alla “soluzione finale” possa essere frutto di una consapevolezza maturata nel tempo, ma possa anche delinearsi all’improvviso, frutto di un moto istintivo dell’animo.

Roberto Cenati ricorda l’amicizia che lo legò a don Barbareschi, in particolare dà spazio a due episodi, che segnarono fortemente l’animo di don Barbareschi. Il primo rievoca  il giorno in cui don Giovanni, ancora diacono, si recò in piazzale Loreto a benedire i corpi delle vittime dell’eccidio nazifascista, fra cui vi era Giulio Casiraghi:  si inginocchiò, recitò una preghiera, a quel punto si voltò e vide dietro di sé la folla in ginocchio in assoluto silenzio. Il secondo episodio riguarda il suo arresto. Venne selvaggiamente torturato: le percosse subite non gli permettevano di alzare il braccio per far capire agli altri prigionieri che non aveva parlato. Fu Suor Enrichetta Alfieri a farlo al posto suo: subito i detenuti cominciarono a battere i cucchiai contro le grate in segno di solidarietà. Don Giovanni provò un’emozione fortissima, forse la più forte della sua vita. Anche Liliana Segre ricorda sempre con commozione  la solidarietà che le manifestarono i detenuti di San Vittore mentre si avviava ad Auschwitz.

Don Barbareschi conservò per un certo tempo i timbri usati per i passaporti falsi che servirono a salvare migliaia di vite, poi li donò all’Istituto di storia della Resistenza, ma volle  tenere con sé la lettera con cui la comunità ebraica di Milano gli esprimeva la sua gratitudine.

Pierfrancesco Fumagalli offre una riflessione sul significato biblico di yad vashem, giardino di vita e di accoglienza secondo la voce dei profeti e apre all’attualità: a Babi Yar sta per aver luogo una celebrazione interreligiosa per invocare per l’Ucraina il dono della pace: il nostro ulivo, che vuole essere memoria di un uomo che seppe sempre  scegliere per la libertà di ogni uomo, sia benedizione e  augurio di pace per questa martoriata terra.

Franco Foa’ prima di pronunciare la benedizione che accompagna la piantumazione dell’ulivo evidenzia l’impegno del KKL in difesa dell’ambiente facendoci riflettere sulla necessità che la lotta in difesa dell’umano non possa prescindere dal senso di responsabilità nei confronti della natura.

Sicuramente di grande impatto la lettura della testimonianza che il 3 febbraio 2005 don Giovanni Barbareschi fece nel nostro Liceo da parte di due studenti, Margherita e Luca: ciò che cattura l’attenzione non è solo il contenuto del testo, di grande valenza etica, ma anche il coinvolgimento degli studenti, che non si sono limitati a prestare la loro voce, ma hanno fatto proprio il messaggio di don Barbareschi.

Margherita, che appartiene al movimento scout Agesci,  dopo che l’ulivo è stato piantato, pronuncia la promessa degli scout: non sta recitando per il pubblico, sta effettivamente dicendo la promessa. In quel momento sembra che Margherita sia sola, dinnanzi a quell’ulivo, stia affidando a don Barbareschi la sua scelta, il suo impegno a essere fedele a quei valori che animarono i ragazzi dell’Oscar, delle Aquile randagie. Don Giovanni sta passando il testimone della difesa della libertà ai nostri studenti, a Margherita, a Luca, a Davide, a Mattia…

Un particolare ringraziamento a tutti coloro che hanno reso possibile questa iniziativa, il DS, prof. Pistolesi, la Vicepreside, prof.ssa Segneri, che l’ha sempre sostenuta, il prof.Sarago’ che ha realizzato il progetto del Giardino, che sarà tra poco ultimato.

Soprattutto la nostra gratitudine deve essere rivolta all’Associazione Italia-Israele di Milano e al KKL, che hanno reso possibile la realizzazione di questo progetto e ci hanno fatto dono dell’ulivo.

Un grandissimo ringraziamento agli studenti che hanno partecipato e che hanno attivamente collaborato: sono loro i primi destinatari di quella testimonianza che don Barbareschi affidò nel 2005 al nostro Liceo.


Testimonianza di don Giovanni Barbareschi:

Giovanni Barbareschi

MEMORIA  E  ATTUALITA’ DELLA  RESISTENZA

Sono prete, sono diventato prete e ho celebrato la mia prima Messa il 15 agosto del ’44 e la sera stessa sono stato arrestato dalle SS per aver salvato un po’ di ebrei.

Ma non è ancora tutto; dopo i primi interrogatori duri, finalmente, abbastanza conciato, vengo portato in cella e uso la parola “portato” perché non ce la facevo a camminare da solo. Raggio V, cella 102: poco dopo bussa alla porta di quella cella un secondino, italiano, che faceva la guardia carceraria e mi dice: “Sei prete?”. “Sì”. “Ma sei prete davvero?”. Mi meraviglio della domanda: “Sì, sono prete davvero, ho detto la prima Messa questa mattina”. “Due celle in là ci sono cinque giovani che domani mattina saranno fucilati, hanno chiesto di potersi confessare. Te la senti?”. “Certamente”. Sono state le mie prime confessioni, le mie prime assoluzioni che ho dato come prete. A un certo punto il secondino viene ancora a chiamarmi: “Stanno arrivando quelli delle SS. E’ bene che tu scappi”. Ritorno nella mia cella, ma non posso dimenticare quei volti, quei bigliettini che mi hanno dato per un saluto alla mamma, alla fidanzata, alla moglie e il mio compito era portare a loro questi bigliettini.

Sono riuscito a mantenere la parola data solo un po’ di tempo dopo, quando sono uscito dal carcere. E oggi ricordare…: non meravigliatevi se dico che provo un disagio e quasi la vergogna a ricordare…, ricordare la liberazione dell’Italia dal fascismo e dal nazismo, sognata come liberazione da ogni violenza e da ogni miseria.

Sì ho fatto la Resistenza, in molti abbiamo lottato e sperato insieme; sperato per ottenere i risultati di oggi? No. Mi chiedo: ci siamo liberati o piuttosto si è abbattuto un nuovo faraone e abbiamo assistito alla comparsa di altri faraoni?

A liberarci non sono gli uomini, non sono le strutture e neppure le ideologie. Se è un uomo o una struttura che mi liberano, io divento schiavo di quell’uomo o di quella struttura. Ogni ideologia, per quanto rivoluzionaria, una volta arrivata al potere sarà sempre una forza conservatrice, se non altro per conservare il potere che ha conquistato.

Il faraone non è stato vinto, ne sono succeduti altri ugualmente oppressori, anche se non si presentano più armati di mitra.

Ho imparato sulla mia pelle che la liberazione è sempre una meta e che raramente è una realtà. Una meta da realizzare ogni giorno. Per questo ogni uomo deve ritenersi sempre un resistente. La Terra Promessa è sempre da raggiungere. La Resistenza fa corpo con lo stesso essere uomo; continuando il discorso delle Beatitudini evangeliche non avrei paura ad affermare: “Beato colui che sa resistere”.

Oggi ricordo quei giorni, quelle situazioni nella speranza che questo serva a incoraggiare qualcuno, dico a voi, qualcuno di voi, a fare resistenza, a diventare ribelle, purché lo si diventi come noi allora, ribelli per amore.

Ho fatto la Resistenza partecipando alla redazione di un giornale: “Il Ribelle”. Sfoglio il nostro giornale e ne trascrivo alcuni brani. I nomi che hanno firmato quegli articoli sono tutti nomi falsi. Non importavano ieri e non importano neppure oggi. Erano le idee di un gruppo di amici, le idee per le quali giocavamo la nostra vita. Vorrei solo far notare che stampare quelle idee e diffonderle non era uno scherzo.

“Il Ribelle” è uscito dall’ottobre ’43 all’aprile ’45 con 25 numeri e circa 15000 copie ogni numero.

Non era uno scherzo stampare e diffondere . Non era certo come un volantinaggio di oggi, per distribuire un ciclostilato davanti ad una scuola o ad un’officina.

Per stampare e per diffondere quel misero foglio, che pretendeva di essere un giornale, più d’uno di noi è finito in carcere, in concentramento. Più d’uno di noi non è tornato. Lo sapevamo di giocare con la morte. Per questo chiedo di ascoltare con rispetto e attenzione. Sono parole che delineano un modo di vivere, una strada valida anche oggi: percorrere questa strada dipende solo, come allora, dalla decisione e dall’impegno di ogni singola persona.

Leggo pagine del “Ribelle” perché vorrei fare un invito a tutti coloro di voi che credono ancora nella possibilità di vivere come uomini liberi. Ma prima vorrei fare una premessa.

Parlo da prete: il primo atto di fede che l’essere umano deve fare non è in Dio, il primo atto di fede è in se stesso, nelle sue possibilità di vivere come uomo libero.

Questo è il primo e fondamentale atto di fede, che fonda anche l’altro, se vorrai arrivarci: credere in Dio, perché anche una tua fede, se non fosse frutto della tua libertà, non è fede, è superstizione.

Dalle pagine del “Ribelle”, il nostro giornale:

Ribelli: così ci chiamano, così siamo, così ci vogliamo. La nostra è anzitutto una rivolta morale, è rivolta contro un sistema, contro un modo di pensare e di vivere, contro una concezione del mondo.

Sappiamo che la libertà, quella vera, non può essere portata da nessuno. Non vi sono liberatori, vi sono solo uomini che si liberano.

E’ all’uomo nella sua libertà interiore che ci dobbiamo rivolgere ed è l’uomo nella sua totalità che può diventare persona libera. Molti si illudono di trovare la salvezza nelle istituzioni, nelle leggi, nelle organizzazioni.

L’uomo nuovo non lo fanno le istituzioni, né le leggi, ma solo un lavoro personale, interiore, continuo, uno sforzo costante su se stesso che non può essere sostituito da surrogati di nessun genere. Siamo convinti che influiremo nel mondo più per quello che siamo che per quello che diciamo e facciamo. Non si deve partire dal desiderio di dominare, ma dal desiderio di servire. Crediamo con tutte le nostre forze che la verità e l’amore operano nel mondo per il solo fatto della loro presenza, ma non pretendiamo di vedere immediatamente i frutti di questa presenza, intrattenuta nel mondo anche per la nostra, fervida testimonianza.  Ma anche noi ribelli abbiamo paura, paura di usare parole rovinate, paura di sentimenti che sono stati insudiciati, ci vergogniamo di slanci già sfruttati fino allo schifo e tacciamo e abbiamo paura. Continuiamo a tacere portandoci addosso quest’ultima maledizione fascista, questa paura di amare per orrore della retorica.

Sono passati sessant’anni da quando scrivevamo così: Carlo, Franco, Teresio, Rolando…I nostri morti. Oggi scriverebbero ancora le stesse cose, ne sono sicuro e io con loro.

Scusate se uso la parola fascismo. Cercate di dare a questa parola il senso e il valore che aveva nella nostra storia, sessant’anni fa, perché il fascismo non è solo una dottrina, un partito, una camicia nera, un saluto romano…, il fascismo è un modo di vivere, di concepire l’esistenza, è un costume e questo modo di vivere è sempre in agguato, dentro ogni uomo, è una tentazione perenne in ogni essere umano e in ogni società. Si cede al fascismo quando la violenza fisica o psicologica è  strumento abituale, giustificato perché efficiente, amato perché produttivo. Si diffonde e si fa crescere la mentalità fascista quando ci si piega ai falsi servilismi burocratici per amore di quieto vivere o di carriera, quando la verità è falsata, tradita, ridotta, usata, resa strumento per i propri fini di gruppo o di partito.

Siamo inficiati da una mentalità fascista quando un superiore è solo temuto e non è amato, quando a lui chiediamo una cieca benevolenza da nonno più che un sapiente amore educativo di padre. Siamo inficiati da mentalità fascista ogni volta che crediamo più all’apparenza che all’essere e sull’apparenza fondiamo i nostri rapporti con gli altri.

E’ frutto del terribile e satanico tarlo roditore del fascismo quello che porta molti, giovani e non più giovani, a ripetere frasi imparate a memoria, a gridarle, tutti insieme, quasi volendo sostituire l’appoggio del mancato giudizio intellettivo con l’emotività di un’adesione psicologica e fanatica. A tutto questo, giovani, è urgente, è indispensabile fare resistenza.

Resistenza oggi e domani: la fedeltà è una qualità essenziale della resistenza, come la fiammata lo è della rivolta.

Resistere, opporsi alla massa, diventare uomo, essere persona è una decisione di oggi. Le decisioni più radicali nella vita si prendono quando si ha la vostra età. Tutta la vita dipende da qualche sì o da qualche no detto a questa vostra età.

Ma vi prego oggi, vi prego, giovani, decidete oggi, perché domani potrebbe essere troppo tardi.

Cinisello Balsamo, 3 febbraio 2005