Ultima modifica: 8 Luglio 2020

Mara D’Avanzo 4BL

Oggetto: Riflessioni

In questi giorni sono molte le riflessioni che sto facendo. Il Coronavirus è stato imprevedibile per tutti noi anche se ha provocato una situazione che dobbiamo affrontare e che sono certa supereremo. Ho guardato molti giornali, visto video su Youtube, fatto alcune piccole ricerche per poter capire cosa stesse realmente succedendo. Mi sono informata sulle statistiche delle influenze negli anni scorsi,  che differenza c’è fra questo virus e l’influenza. Ho visto i tassi di mortalità degli altri virus e confrontato dati un pò ovunque.

I primi giorni ho continuato ad ascoltare cosa mi stava circondando e poi ho fatto silenzio nella mente e mi sono detta che dovevamo avere speranza, che tutto sarebbe andato bene, che tutto sarebbe tornato alla normalità, che era solo una fase bruttissima ma che prima o poi sarebbe passata.

Da quel momento ho iniziato a vivere questa situazione in maniera differente: mentre prima avevo il terrore di potermi ammalare, o peggio il terrore che qualcuno della mia famiglia si potesse ammalare, in particolare i miei nonni che sono i soggetti più a rischio, ho iniziato pian piano a tranquillizzarmi e a pensare che tutto sarebbe andato per il verso giusto.

Forse dobbiamo cambiare per un po il modo di lavorare, di studiare, di stare insieme, anche di fare la spesa e allora? Si cambia se questo è necessario senza alcun problema.

Un altro aspetto su cui ho ragionato è il seguente: in un momento storico in cui certe ideologie e politiche discriminatorie, si stanno riattivando in tutto il mondo, arriva un virus che ci fa sperimentare che, in un attimo, possiamo diventare i discriminati, i segregati, quelli bloccati alla frontiera, quelli che portano le malattie. Anche se non ne abbiamo colpa. Anche se siamo bianchi, occidentali e viaggiamo in business class. Nei giorni scorsi ho letto una frase che diceva: “Così la prossima volta che bloccheremo una nave di migranti, ci penseremo due volte”. Ed è proprio questo che mi ha fatto pensare: appena si è saputo che la Lombardia sarebbe diventata zona rossa, tutti sono scappati, senza pensarci due volte, da una situazione che in realtà non è così catastrofica. I migranti invece scappano da zone di guerra, o dalla fame, che mettono a rischio le loro vite ogni giorno, e c’è gente che ancora crede non debbano essere accolti e aiutati.

Poi ho pensato al fatto che siamo abituati a vivere in una società fondata sulla produttività e sul consumo, in cui tutti corriamo 14 ore al giorno dietro a non si sa bene cosa, da un momento all’altro, arriva lo stop.

Fermi, a casa, giorni e giorni. A fare i conti con  un tempo di cui abbiamo perso il valore, se non è misurabile in compenso, in denaro.

Sappiamo ancora cosa farcene?

Il virus chiude le scuole e costringe a trovare soluzioni alternative, a rimettere insieme mamme e papà con i propri bimbi. Ci costringe a rifare famiglia.

In una dimensione in cui le relazioni, la comunicazione, la socialità sono giocate prevalentemente nel “non-spazio” del virtuale, del social network, dandoci l’illusione della vicinanza, il virus ci toglie quella vera di vicinanza, quella reale: che nessuno si tocchi, niente baci, niente abbracci, a distanza, nel freddo del non-contatto.

Quanto abbiamo dato per scontato questi gesti ed il loro significato?

In una fase sociale in cui pensare al proprio orto è diventata la regola, il virus ci manda un messaggio chiaro: l’unico modo per uscirne è la reciprocità, il senso di appartenenza, la comunità, il sentire di essere parte di qualcosa di più grande di cui prendersi cura e che si può prendere cura di noi. La responsabilità condivisa, il sentire che dalle tue azioni dipendono le sorti non solo tue, ma di tutti quelli che ti circondano. E che tu dipendi da loro.

Allora, se smettiamo di fare la caccia alle streghe, di domandarci di chi è la colpa o perché è accaduto tutto questo, ma ci domandiamo cosa possiamo imparare da questo, credo che abbiamo tutti molto su cui riflettere ed impegnarci.